sabato 22 dicembre 2018

I più bei film noir [7]

Come si vedrà nelle righe sottostanti, per il film "Milano calibro 9" di Fernando Di Leo, la troupe ha preso spunto  da racconti dell'omonima raccolta di Giorgio Scerbanenco come ad esempio "Stazione centrale ammazzare subito".

Milano calibro 9





"Milano Calibro 9", film girato nel 1971 e uscito l’anno successivo, è il primo capitolo della celebre Trilogia del Milieu, continuata da "La mala ordina" e conclusa da "Il boss", nel corso della quale Fernando di Leo esplora i vari aspetti del mondo della criminalità organizzata.
Il titolo del film è tratto da quello di un racconto di Giorgio Scerbanenco e sempre dallo scrittore russo derivano alcuni spunti di sceneggiatura, per esempio il pacco bomba alla stazione, derivato dal racconto "Stazione centrale ammazzare subito".
Al di là degli spunti però, si può dire che Di Leo abbia costruito il proprio film in assoluta autonomia utilizzando la categoria del noir per un personale discorso sociologico e antropologico, oltre che filosofico, sull’universo delinquenziale.
La riuscita perfetta di "Milano calibro 9" passa anche attraverso l’uso accorto degli attori, in particolare Gastone Moschin, che per la prima volta nella sua carriera si cimenta in un ruolo drammatico, Barbara Bouchet, nella cui bellezza il regista trovò riflessi di ferocia adatti al personaggio, Mario Adorf, artefice di una caratterizzazione memorabile nella parte del violento e sardonico Rocco Musco e Lionel Stander che inaugura la tradizione dei grandi interpreti hollywoodiani adottati da Di Leo nei propri noir.
Ma vera protagonista del film è la città, Milano, che si affranca da una pura funzione di sfondo alla vicenda narrata diventando un centro nevralgico di lotte intestine tra la malavita e un ganglio di interessi economici sporchi.
"Milano calibro 9", come si è precedentemente detto, girato sul finire del 1971, è il primo capitolo ideale di una trilogia che si andrà completando nei due anni successivi con "La mala ordina" e "Il boss", nell’arco della quale Di Leo traccerà le coordinate di un nuovo universo del crimine quale si era andato affermando in Italia e soprattutto nelle grandi metropoli del nord in quegli anni.
Una visione diretta, secca, priva di orpelli ma straordinariamente acuta e con esiti lirici nella sua capacità di afferrare l’essenza antropologica degli individui, distinguendone i tipi e sottolineandone le psicologie, con un occhio sempre fisso alla società che produce i “delinquenti”.
I noir dileiaini diventano così una chiave interpretativa del reale, delle sue contraddizioni, e dell’irriducibilità dialettica tra apparenza e destino.
"Milano calibro 9", originariamente pensato con il titolo "Da lunedì a lunedì", uscì nei cinema in una forma lievemente diversa da quella in cui è poi circolato nei supporti home-video, con la sovraimpressione di giorni e ore a scandire le varie fasi della storia e a dare il senso del procedere inesorabile del tempo.
Grande pregnanza al tutto offre infine la colonna sonora, composta da Luis Bacalov ed eseguita dal gruppo degli Osanna, che commenta magnificamente l’alternarsi di crudeltà e lirismo alla base di quello che giustamente si considera il capolavoro di Fernando di Leo.

martedì 18 dicembre 2018

I più bei film noir [6]

L'opera di cui si parla in questo post, è un bellissimo e seducente gangster movie, forse la migliore interpretazione di sempre di Kevin Costner... 

 Gli Intoccabili


"Gli Intoccabili", film diretto da Brian De Palma e uscito nelle sale cinematografiche di tutto il mondo nel 1987, narra la storia di un gruppo di rappresentanti delle forze dell’ordine composto da un agente governativo di nome Eliot Ness, interpretato da Kevin Costner, dai poliziotti Jimmy Malone e George Stone, Sean Connery e Andy Garcia, e da un ragioniere, Oscar Wallace, a cui dà il volto Charles Martin Smith, che nella Chicago del proibizionismo riesce a porre fine ai traffici illegali di Al Capone, boss italoamericano dal sorriso beffardo impersonato in modo magistrale da un Robert De Niro decisamente ingrassato, e ad assicurare quest’ultimo alla giustizia.
Scritta dal grande drammaturgo David Mamet questa pellicola ha vinto numerosi premi come: l’Oscar per il miglior attore non protagonista andato a Sean Connery, un Golden Globe sempre a Sean Connery, un Grammy Award per la migliore colonna sonora e un Nastro d’Argento per la migliore musica.
Questo lungometraggio riprende il titolo e i personaggi di una nota serie televisiva e ne fa un dramma poliziesco iperrealista e di infallibile presa.
Oltre alle interpretazioni magistrali di Connery e De Niro va sottolineata anche l’eccelsa prova di Kevin Kostner che in quest'opera sfoggia la sua miglior recitazione di sempre.
Elliot Ness è un personaggio di certo valorizzato dall’ottimo cast che ha attorno ma nonostante questo è un protagonista costruito realmente bene.
Film dalla regia sopraffina "Gli intoccabili" annovera al suo interno scene memorabili come: la sequenza parodistica della carrozzina, ispirata dalla "Corrazzata Potëmkin" di Ejzenstejn, che si svolge nella stazione ferroviaria di Chicago e quelle che vedono De Niro/Al Capone prima piangere all’Opera sulle note di "I pagliacci" di Leoncavallo e poi giustiziare con una mazza da baseball un pretoriano che lo ha deluso.
Forte di una gran bella confezione scenografica e di una delle migliori colonne sonore mai composte da Ennio Morricone "Gli Intoccabili" si distingue per quella pregnante atmosfera da gangster-movie vecchia maniera in esso riproposta, atmosfera che in se stessa si rivela indiscutibilmente seducente.
Notevole fascino ma non altrettanto notevole spessore per la trama, con l’aggravante aggiuntiva di aver trascurato un immenso Robert De Niro, che con più tempo scenico a disposizione sarebbe stato sicuramente in grado di conferire ben altra linfa a un opera molto seducente ma spesso incensata con troppa generosità.

sabato 8 dicembre 2018

I più bei film noir [5]

In questo post si parla un'opera degli anni '30 che è considerata uno dei primi lungometraggi noir e  rappresentante di un genere che negli anni successivi e sopratutto ai giorni nostri ha preso molto piede: i film sui serial-killer.

M il mostro di Dusseldorf


Nel 1931 Fritz Lang gira un lungometraggio che è unanimamente considerato uno dei capolavori del cinema espressionista tedesco, "M il mostro di Dusseldorf".
Nonostante sia la pellicola con cui Lang inizia a esplorare le possibilità artistiche del cinema sonoro, nel film si avverte ancora un forte richiamo alle tecniche espressive del cinema muto.
Queste però sono fuse, con stupefacente modernità e sapiente maestria dal regista austriaco, con effeti di suono e parlato che si prestano moltissimo a commentare e ad accompagnare la vicenda.
Ispirato a un fatto realmente accaduto, "M il mostro di Dusseldorf", può essere considerato un precursore di quello che è divenuto con il passare degli anni un vero e proprio genere di culto, il film sui serial-killer.
Questa brevemente la trama: uno psicopatico che uccide bambini terrorizza la città tedesca di Dusseldorf.
La polizia brancola nel buio e allo stesso tempo investigando, crea problemi alla criminalità organizzata che decide, pur di togliersi le forze dell’ordine dai piedi, di dare la caccia all’assassino.
M, abbreviazione del termine tedesco Mörder, cioè assassino, rappresenta il film che per primo tocca il tema scottante dell’omicida che si può trovare in ognuno di noi.
Con questa pellicola, sceneggiato con la moglie Thea von Harbou, Lang affronta, oltre al tema del serial killer, una tematica che gli è cara, ovvero l’opposizione tra giustizia ufficiale e giustizia privata.
Dal punto di vista della regia, in cui Lang mostra come si possa utilizzare in modo magistrale la macchina da presa nei piani sequenza e in soggettiva, "M il mostro di Dusseldorf" è un capolavoro dove tutto concorre con un’intensa progressione drammatica, verso un vibrante, quasi insostenibile finale.
Franz Becker, questo il nome del mostro, interpretato dall’allora ventisettenne Peter Lorre, pseudonimo dell’attore ungherese László Löwenstein, è inquietante nel suo vagare per le strade alla perenne ricerca di nuove vittime da adescare ed è sempre preceduto da una nenia macabra da egli stesso fischiata.
La sperimentazione col sonoro che allora, parliamo degli anni ‘30, era una novità è in questo film già arditissima.

sabato 1 dicembre 2018

I più bei film noir [4]

Nel novero dei migliori film noir, rientra sicuramente un' opera del 1988 diretta da Robert Zemeckis e prodotta dalla Disney e dalla Amblin Entertainment di Steven Spilberg che combina due delle mie più grandi passioni: l’animazione e il giallo stile anni ‘40.

Chi ha incastrato Roger Rabbit?


"Chi ha incastrato Roger Rabbit?" è uno splendido lungometraggio del 1988 che annovera una commistione tra due generi all’apparenza inconciliabili quali l’animazione e il giallo stile anni ‘40.
Diretto da Robert Zemeckis, coprodotto dalla Touchstone, di proprietà della Walt Disney e dalla Amblin di Steven Spielberg e record d’incassi della stagione è uno dei film che, all’epoca della sua uscita, ha rivoluzionato la tecnica cinematografica grazie alla perfetta sincronizzazione tra persone in carne ed ossa e cartoni animati e che ha ridato lustro a un genere, l’animazione, che allora sembrava dimenticato.
C’è da ricordare anche che questa pellicola ha vinto quattro meritatissimi Oscar: miglior montaggio, migliori effetti speciali, migliori effetti visivi e migliori effetti sonori.
L'opera, che si svolge nella Hollywood del 1948 dove esseri umani e cartoni animati convivono, ha per protagonista il coniglio Roger Rabbit, che sembra essere, per gelosia verso la moglie Jessica Rabbit, il responsabile dell’omicidio del padrone di Cartoonia Marvin Acme.
Roger, per scagionarsi, chiede aiuto al detective privato alcolizzato Eddie Valiant, interpretato magistralmente da Bob Hoskins, che scoprirà che il vero autore del delitto non è il coniglio bensì il giudice Doom, Christopher Lloyd, che vuole far sparire Cartoonia dalla faccia di Hollywood.
Il film, oltre che per l’elevato tasso tecnico, stupisce per il ritmo da cartoon imposto alla vicenda da regista e attori.
La pellicola, piena di trovate e di vitalità, è cosparsa di battute salaci e di una punta di irriverenza, di sensualità e seduzione.
"Chi ha Incastrato Roger Rabbit?" è anche una finestra aperta che fa un po’ di satira sul mondo del cinema e sui retroscena delle produzioni hollywoodiane.
È adattissimo ai bambini perché valorizza il mondo dei cartoon e lo rende allo stesso tempo meno distante, più vero e reale ponendo quasi un suggello alla sua esistenza, grazie ai numerosi collegamenti tra questo mondo e quello reale dei grandi Studios di Los Angeles.
Però proprio a causa del mix tra temi reali e fantastici è accessibile non solo ai più piccoli, ma davvero a tutti.
Memorabile è l’inizio del film, con Roger Rabbit e Baby Herman, personaggio modellato sul Baby Butch inventato da Frank Tashlin per il cartoon Brother Brat del 1944, nello stile dei cortometraggi Warner degli anni Cinquanta, assolutamente perfetto per ritmo, gag e genialità di raccordo con il mondo reale.
Così come indimenticabili sono anche le esuberanti curve di Jessica Rabbit che, cantando con la voce roca e sexy di Kathleen Turner, è diventata una delle icone dell’ultimo decennio del ‘900.
Da menzionare sono infine le partecipazioni straordinarie di moltissime celebrità dei cartoon, le più note delle quali sono: Betty Boop, Paperino, Duffy Duck, Topolino e Bugs Bunny.
Film assolutamente imperdibile, "Chi ha incastrato Roger Rabbit?" è un capolavoro del genere che, dalla sua prima proiezione, non ha perso nulla del suo fascino.

venerdì 30 novembre 2018

I più bei film noir [3]

Genesi e storia dell’opera a fumetti e dell’ottimo film che ha ispirato…

Sin City, dalla carta alla pellicola


Abbandonati gli eroi in calzamaglia Frank Miller, agli inizi degli anni novanta e più precisamente nel 1991, realizza la sua opera stilisticamente più matura e innovativa, "Sin City".
La miniserie è originariamente pubblicata, divisa in 13 parti, su "Dark Horse Present", la rivista contenitore edita dalla casa editrice Dark Horse che all’epoca era la terza potenza del mercato dei comics dopo Marvel e Dc.
La peculiarità di questo lavoro come tutte quelli che lo seguiranno, è il fatto di essere disegnata in un bianco e nero senza grigi e mezzi toni come se l’autore volesse suggerirci, anche graficamente, che nel contesto in cui è ambientata la vicenda, Sin City che in inglese significa città del peccato, abbreviazione di Basin City, non ci può essere nessuna sfumatura.
Il protagonista della vicenda della prima miniserie è Marv un tipo poco raccomandabile che è appena uscito di galera.
In un locale notturno incontra una bellissima donna, Goldie, una prostituta d’alto bordo.
I due passano la notte a fare l’amore ma il mattino seguente Marv la ritrova morta proprio accanto a lui.
Marv decide così di scoprire il colpevole di questo delitto e la sua caccia all’uomo lo porterà a scandagliare in lungo e in largo la città del peccato.
Il successo di questo graphic novel è immediato e per certi versi inaspettato, tanto che viene subito ristampato in volume.
Miller infatti ha sempre realizzato opere supereroistiche anche se di livello sopraffino, basti pensare al suo insuperato ciclo di Devil o al suo capolavoro "Il ritorno del cavaliere oscuro", e il tipo di pubblico a cui si rivolge Sin City non è certo quello dei teen agers.
Qualche anno dopo Miller pubblica un altra miniserie dal titolo: "A dame to kill for" sempre ambientata nella città del peccato, per poi continuare, con cadenza praticamente annuale, a proporre nuovi cicli di storie.
La cosa più interessante dell’opera è sicuramente la rivoluzione grafica operata dall’autore.
Abbandonati i colori, affidati alla sua compagna Lynn Varley, Miller con il solo uso del pennello e del bianco e nero, realizza su carta quello che i registi del Noir hollywoodiano degli anni 30 e 40 hanno realizzato su pellicola, giocando con le luci e con le ombre.
Seguendo la lezione dell’argentino Munoz, del giapponese Otomo e del cinema espressionista tedesco, l’autore americano offre una magistrale prova di virtuosismo tecnico, creando tavole a prima vista perfino indecifrabili, almeno per chi è abituato alle rassicuranti pagine del fumetto mainstream.
Molti sono stati i tentativi di seguire la strada che "Sin City" ha aperto, dal sopravvalutato "Armored and Dangerous" di Bob Hall, vera e propria brutta copia della saga milleriana, a "Stray Bullets" di David Lapham, l’unico vero epigone delle miniserie del creatore di Elektra.
Nessuno però ha saputo riproporre quanto Miller aveva fatto, neanche lui stesso.
Miniserie dopo miniserie infatti si è ripetuto facendosi praticamente il verso da solo e scandendo spesso nei soliti cliché del genere.
"Sin City" è stata pubblicata in Italia per la prima volta a puntate sui primi sette numeri di una delle migliori testate edite dalla Star comics, la sfortunata "Hyperion", rivista chiusa dopo soli nove numeri.
Il corpo di "Sin City", che è stato stamapto in Italia da numerose case editrici tra cui: Star Comics, Play Press, Lexy e Magic Press, ha ispirato anche un pregevole lungometraggio uscito in America nell’aprile del 2005.
La pellicola, diretta e sceneggiata da Robert Rodriguez e dallo stesso Frank Miller, è basata sulla miniserie originale "Sin City" e sulle due storie successive "Sesso e sangue a Sin City" e "Quel bastardo Giallo".
A cavallo tra noir, hard boiled e gangster movie, il film riproduce fedelmente l’atmosfera, i dialoghi e le storie dei personaggi del fumetto di Miller, le cui esistenze disperate si intrecciano nella immaginaria metropoli infernale dove è estremamente facile morire ammazzati per strada e la polizia è più corrotta dei criminali, dove dominano sesso, violenza, amore, morte, sete di vendetta e desiderio di redenzione.
Storie come quelle di Marv, pronto a tutto pur di vendicare la morte di Goldie, l’unica donna che nella sua vita è riuscita a fargli provare un po’ d’amore e che è stata uccisa mentre dormiva accanto a lui, di John Hartigan, un poliziotto in procinto di andare in pensione accusato di un crimine che non ha commesso e che ha promesso di proteggere la giovane Nancy dalle grinfie di un criminale pedofilo, di Dwight, un ex-fotografo e killer alle prese con Jackie Boy, un poliziotto violento che minaccia Shellei, la cameriera di cui è innamorato, della bella prostituta Gail e di tutte le altre ragazze della Città Vecchia.
Anche il cast, di tutto rispetto, è composto da attori che in america vanno per la maggiore.
Il redivivo Mickey Rourke presta il suo volto tumefatto e dolente a Marv, il killer dal cuore d’oro.
Bruce Willis è John Hartigan, sbirro, a poche ore dalla pensione, con il pallino per le cause perse.
Elijah Wood, il Frodo Baggins della trilogia di "Il Signore degli Anelli" è Kevin, un serial killer antropofago da fare invidia al leggendario Hannibal Lecter, e Jessica Alba, la Dark Angel della serie Tv, indossa i panni succinti e ha le curve mozzafiato di Nancy Callahan, una delle tante donne perdute della città del peccato.
Ma non finisce qui: in cartellone ci sono anche Christopher Walken, Carla Gugino, Josh Hartnett e Michael Clarke Duncan.
Quello di portare al cinema "Sin City" è sempre stato un sogno di Rodriguez che ha realizzato la pellicola nella maniera più completa che si potesse pensare grazie alle tecnologie digitali.
Ha girato infatti tutto il film con attori in carne e ossa su un set fatto interamente di green screen e poi ha ricreato la città e i suoi luoghi grazie al computer.
Il regista texano ha convinto Miller, piuttosto avverso al mondo di Hollywood, a cedere i diritti del suo fumetto, realizzando a proprie spese nel più assoluto riserbo una breve preview di sei minuti interpretata da Josh Harnett e Marley Shelton che trova spazio nei titoli di testa.
Il trailer, girato all’inizio del 2004 e consegnato nelle mani del cartoonist con la promessa di interrompere immediatamente il progetto se il risultato non fosse stato di suo gradimento, ha sortito invece l’effetto sperato permettendo a Rodriguez di dare il via alla lavorazione del film.
Lo stesso regista ha insistito perché Frank Miller cofirmasse la regia del film, dando addirittura le dimissione dal Directors’ Guild of America, il sindacato dei registi americani, che si opponeva a questa iniziativa.
Non risulta invece accreditato Quentin Tarantino, che ha ricambiato il favore che l’amico fraterno Robert Rodriguez gli ha fatto per "Kill Bill: Volume 2", dirigendo, per il simbolico compenso di un dollaro, alcune scene dell’episodio che vede protagonista Clive Owen ispirato alla miniserie "Sesso e sangue a Sin City".
La sua presenza come special guest director risulta poi particolarmente significativa considerata l’avversione di Tarantino per l’uso eccessivo del digitale.
"Sin City" è un film affascinante, avvincente e convincente per la sua forma e per il suo contenuto; ma è anche una delle migliori opere che dimostrano e svelavano le nuove ed enormi potenzialità offerte dall’ibridazione cinema-fumetto e alle loro reciproche influenze.
Un’opera che nel suo forte ma mai eccessivo utilizzo delle tecnologie digitali è un ottimo esempio, quasi sperimentale, delle prospettive e delle possibilità del cinema del futuro.
Sin City pertanto è un film caldamente consigliato sia agli amanti del cinema noir che a quelli del cinema tratto da fumetti.

mercoledì 28 novembre 2018

I più bei film noir [2]

Continuiamo la nostra disamina con una pellicola, incentrata oltre che sulle indagini anche sul rapporto che si instaura tra i due protagonisti, che all'uscita al cinema non mi aveva entusiasmato più di tanto.
Solo ad ulteriori visioni mi si è rivelato per il grande film che è.
Un consiglio che mi sento quindi di dare a chiunque voglia immergersi nella visione di quest'opera d'arte è quindi di indugiare un po' non fermandosi alla prima impressione.

Il silenzio degli innocenti



Tratto dal romanzo dello scrittore statunitense Thomas Harris, pubblicato nel 1988, "Il silenzio degli innocenti" è un film molto coinvolgente dal punto di vista della trama e di grande impatto visivo.
La pellicola, girata nel 1991, ha vinto l’Orso d’oro per la regia al Festival di Berlino.
È stato inoltre il primo thriller a vincere quelli che da sempre sono considerati i cinque oscar maggiori: film, regia, sceneggiatura, attore e attrice protagonista.
Questa in breve la trama: l’Fbi non riesce a catturare uno psicopatico, soprannominato Buffalo Bill, che uccide giovani donne e poi le scuoia.
Viene incaricata dell’indagine la giovane Clarice Starling, a cui presta il volto Jodie Foster, recluta fresca d’accademia e ragazza coraggiosa, geniale e tormentata dalla morte del padre poliziotto.
Per risolvere il caso, Clarice chiede aiuto allo psichiatra Hannibal Lecter, interpretato da Anthony Hopkins, un pazzo assassino e psicologo di notevole cultura detenuto, per aver mangiato i suoi pazienti, in una cella di massima sicurezza di un manicomio criminale.
Fra i due personaggi si stabilisce una gara di intelligenza, forza nervosa e oscuri segnali da interpretare.
Clarice, grazie a uno spunto di Lecter, trova la chiave giusta: una certa farfalla, trovata nella gola delle vittime, rappresenterebbe un desiderio transessuale del carnefice.
Grazie a quest’indizio, Buffalo Bill viene trovato proprio mentre sta per uccidere l’ennesima vittima.
Nel frattempo Lecter evade facendo una strage.
Una mattina Clarice riceve la telefonata di Hannibal; l’assassino si complimenta con lei e le annuncia nuove imprese e vendette da cannibale.
Capolavoro di Jonathan Demme, allievo del grande Roger Corman, "Il silenzio degli innocenti" è una delle pietre miliari dei film sui serial killer.
La tensione nel corso della pellicola non cade mai di tono e l’architettura della narrazione, di cui Demme tira le fila con grande capacità registica, lascia lo spettatore sulle spine per tutta la durata della vicenda.
Certe scene poi, come quella dell’uccisione di Buffalo Bill, della maschera da tortura medievale di Hannibal e della gara dialettica fra i due protagonisti sono indimenticabili.
Al di là della storia, inquietante per numerosi particolari feroci e animaleschi, un altro aspetto del film che colpisce è il rapporto fra Jodie Foster e Anthony Hopkins che procede e si sviluppa parallelamente all'indagine.
Lo psichiatra da consulente dietro le sbarre diventa il vero padrone del rapporto, spingendo il personaggio della Foster a confidarsi e a indagare nella sua stessa mente.
Una vera sfida tra due grandi attori, condotta a colpi di sguardi, espressioni ambigue, paure che sanno comunicare addirittura più delle parole, tanto che lo spettatore può in certi momenti sentirsi addirittura lui stesso preda di questo cannibale così abile a giocare con la mente umana.

I più bei film noir [1]

In questo nuovo corso di post affrontarò brevemente l'analisi di alcuni lungometraggi di genere thriller e noir.
Non i film che critica e studiosi ritengono i migliori ma quelli che, nel corso di lunghe serate sul divano davanti al televisore, mi hanno fatto provare sensazioni forti come pianto e riso, riflettere sulla condizione umana, su alcuni episodi della storia sia recente che passata o semplicemente passare in modo piacevole alcune ore.
Comincerò parlando di un lungometraggio del 1970 diretto da Elio Petri ed interpretato da Gian Maria Volontè e Florinda Bolkan.
Vincitorice di numerosi premi come: il Grand Prix Speciale della Giuria al 23° Festival di Cannes e il Premio Oscar nel 1970, quest'opera spicca per la superba interpretazione di Volontè, l'indimenticabile colonna sonora di Ennio Morricone, la scenografia e la fotografia.

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto


"Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" è probabilmente il film più politico del cinema italiano e certamente il più significativo sotto l’aspetto storico e sociale.
Diretto da Elio Petri nel 1970, sceneggiato dallo stesso Petri con Ugo Pirro, accompagnato dalle musiche di Ennio Morricone e uscito nelle sale in quello stesso anno, ha avuto un’accoglienza a dir poco traumatica.
A causa della sua forte componente critica sui metodi adottati in quegli anni dalle forze dell’ordine infatti, la polizia denunciò immediatamente il film al sostituto procuratore della repubblica di Milano Caizzi, il quale però non ritenne opportuno procedere.
Da quel momento l’eco del messaggio politico spinse il film verso il successo.
A Roma, per esempio, furono anticipate le prime proiezioni pomeridiane e prolungate quelle serali.
A conferma della grande presa che il film ha avuto su pubblico e critica poi, bisogna ricordare che "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" ha ottenuto numerosi riconoscimenti sia a livello nazionale che internazionale.
Nel 1970 infatti ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero, il Gran Premio della Giuria a Cannes e a Gian Maria Volonté è andato il David di Donatello come migliore attore.
Nel 1971 invece, Elio Petri, Gian Maria Volonté e Ugo Pirro, rispettivamente regista protagonista e sceneggiatore del film, hanno vinto un Nastro d’argento.
Personaggio principale del film è il capo della squadra omicidi di Roma interpretato dallo straordinario Gian Maria Volonté, che, nel giorno della sua promozione, uccide l’amante, interpretata dall’appassionata, stravagante e sensuale Florinda Bolkan, nel corso di un gioco erotico.
Certo di essere al di sopra di ogni sospetto in virtù della posizione di potere che occupa, Volontè, semina volutamente tracce e indizi a proprio carico.
Come previsto, le indagini intraprese dai colleghi della omicidi non lo toccano, ignorando le sue evidenti provocazioni.
Soltanto Antonio Pace, uno studente fermato per un attentato dinamitardo alla questura, personalmente “interrogato” dall’ispettore, in privato, ha il coraggio di dirgli che lo riconosce come assassino della donna, ma non lo denuncia e viene rilasciato.
In preda a un delirio autopunitivo, l’ispettore consegna ai colleghi della omicidi una lettera di confessione.
Quindi rientra a casa e nella sua fantasia malata immagina le diverse conclusioni della vicenda.
Questo film ha un valore di testimonianza immenso, chiunque può, rivedendolo oggi, farsi un’idea di quello che era il clima di quegli anni, con il Sessantotto ancora caldo e gli anni delle nuove battaglie studentesche e soprattutto quelli del terrorismo ancora da venire.
Immenso Gian Maria Volonté che, nei panni del capo della squadra omicidi, ci ha lasciato una mostruosa interpretazione, sicuramente tra le più sentite, sincere e studiate dell’intera storia del cinema italiano.
È grazie anche ai suoi movimenti, alla sua voce, al modo in cui si rapporta con i suoi sottoposti, ai suoi gesti che il film acquista credibilità e suggerisce il suo messaggio politico senza alcuna ambiguità e con la dovuta convinzione.

mercoledì 3 ottobre 2018

Pagine ingiallite [3] Francesco Mastriani e “Il mio cadavere”


Francesco Mastriani
Intellettuale trasversale la cui produzione attraversa tutto l' 800, Francesco Mastriani nasce a Napoli nel 1819 da agiata famiglia borghese.
Attivo giornalista, drammaturgo, precursore della narrativa sociale e di denuncia e anticipatore dei temi che hanno condotto alle grandi correnti del verismo e del meridionalismo, questo artista è interessante per questa rubrica dedicata al giallo perché è l'autore de “Il mio cadavere”, considerato da molti studiosi il primo libro di questo genere ad esser stato scritto in Italia.
Pubblicata nel 1852 a puntate sulle pagine del quotidiano partenopeo Roma e in volume nel 1853 dall'editore Rossi di Genova, quest'opera, sullo sfondo della Napoli del 1826, narra le vicissitudini di quattro persone: Daniele, un giovane maestro di musica che nel corso della narrazione si scoprirà essere ben altro, Lucia, che si ritrova a far da madre ai propri fratelli dopo la dipartita dei propri genitori, Edmondo, un ricchissimo baronetto vittima del proprio tenore di vita decisamente dissoluto ed Emma, ereditiera di una nobile famiglia spagnola.
Questi personaggi, a cui fanno da contorno numerose altre figure minori fondamentali però per la felice risoluzione delle trame del testo in cui confluiscono elementi vari e diversi in un intreccio ricchissimo e appassionante, hanno in comune il legame con un cadavere e sono protagonisti di vicende amorose e nere che, pur se concepite più di cent'anni fa, non sfigurerebbero in un romanzo giallo odierno.
Un tratto che differenzia quest'opera dalla produzione letteraria noir moderna sta nel fatto che in questo volume non c'è il classico investigatore o funzionario di polizia che esegue indagini sulle morti di cui è disseminato il romanzo.
La narrazione in terza persona è affidata ad una figura esterna che, oltre a rendere partecipe il lettore delle azioni, delle considerazioni e dei pensieri dei protagonisti, presenta le numerose persone che si incontrano nel dipanarsi della vicenda.
Una curiosità da mettere in evidenza è che nel 2010, esattamente 158 anni dalla pubblicazione, questo testo, scritto originariamente in un italiano ottocentesco, è stato riscoperto dallo scrittore viareggino Divier Nelli che, dopo averlo rivisitato alleggerendone la lingua senza nulla togliere o aggiungere però alla trama, avvincente e ricca di colpi di scena, lo ha reso il primo titolo dei Gialli Rusconi, collana, che affianca opere inedite e contemporanee a testi del passato, dedicata dal gruppo editoriale emiliano Rusconi Libri alla narrativa di tensione italiana e straniera.
Quest'operazione, che ha fatto storcere il naso ai puristi, si inquadra nella volontà dell'autore versiliese di restituire alla moltitudine degli appassionati il piacere della riscoperta dei classici della letteratura del passato e di permette ai lettori moderni di affrontare questo romanzo con più agio e di apprezzarlo.
Alla luce di quanto scritto non si può quindi che lodare Nelli per la coraggiosa operazione attuata e consigliare la lettura di questo testo, che per trama e colpi di scena non ha niente da invidiare alla produzione contemporanea, ad ogni appassionato di letteratura di genere e non.



venerdì 14 settembre 2018

La profezia dell'armadillo

Regia: Emanuele Scaringi
Soggetto e sceneggiatura: Michele “Zerocalcare” Rech, Oscar Glioti, Valerio Mastandrea, Johnny Palomba
Fotografia: Gherardo Gossi
Musica: Giorgio Giampà, Nic Cester
Anno d’uscita: 2018
Durata: 99'
Prodotto da: Fandango e Rai Cinema
Cast: Simone Liberati, Valerio Aprea, Pietro Castellitto, Laura Morante, Claudia Pandolfi, Kasia Smutniak, Diana Del Bufalo, Samuele Biscossi, Vincent Candela

Tratto dall'omonimo libro a fumetti di Michele Rech, in arte Zerocalcare, prodotto da Fandango e Rai Cinema e presentato in anteprima nella sezione “Orizzonti” al Festival di Venezia, “La profezia dell'armadillo” è un film diretto dal regista esordiente Emanuele Scaringi.
Questa pellicola, una commedia di cui in origine si doveva occupare Valerio Mastandrea, autore con Zerocalcare della sceneggiatura, oltre che da frasi e personaggi che divertono lo spettatore, è pervasa da un velo di malinconia e affronta, in modo profondo, temi importanti e difficili come la morte e l'amicizia.
Eroe principale del lungometraggio è Zero, un disegnatore che vive nel quartiere romano di Rebibbia, a cui presta il volto Simone Liberati.
Invadente coscienza critica di Zero è un armadillo, interpretato da Valerio Aprea che indossa un costume a dir poco grottesco, con cui il giovane artista si avventura in conversazioni surreali.
La vita del protagonista scorre tra giornate in periferia, scorribande con l'amico d'infanzia Secco, Pietro Castellitto, tra la Tiburtina Valley e il centro di Roma e le visite della madre, una straordinaria Laura Morante.
Finché un giorno la notizia della morte di Camille, una compagna di scuola e suo primo amore, lo costringe a prendere in pugno la sua vita, fatta di dubbi e incertezze.
Il tema centrale dell'opera diventa l'elaborazione di un lutto.
Non si piange però solo per la perdita di una persona cara, ma anche per la presa di coscienza del venir meno di ideali, come è evidente nei due brevi inserti animati con cui comincia e finisce il film, rimasti sull’asfalto delle strade di Genova e nei corridoi della Caserma Diaz.
La parte politica però è solo accennata e “La profezia dell'armadillo” si concentra su tematiche esistenziali più concrete come il constatare che con l'entrata nell'età adulta si perde l'innocenza e la purezza della giovinezza e le responsabilità e i doveri prevalgono sulla spensieratezza.
Se proprio vogliamo trovare un pelo nell'uovo, che però non sminuisce la bellezza di un prodotto fresco e particolare, possiamo dire che il film rispetto all'opera originale convince meno nel racconto del lutto di Zero pur rispettando le atmosfere e lo spirito e rendendo giustizia ai paradossi e alle divertenti situazioni presenti nel fumetto.
E in questo, molto merito hanno: un cast formato da attori credibili e spontanei e cammei di personalità come Adriano Panatta, che si lancia in un monologo da oscar, Kasia Smutniak e Vincent Candela.
Alla luce di quanto scritto si può quindi affermare, senza paura di smentite, che “La profezia dell'armadillo” è un lavoro singolare e consigliarne la visione non solo agli appassionati di cinema e fumetto ma anche a chi voglia capire i giovani, ritenuti a torto senza valori, senza ideali e senza sogni, buttati via davanti alla televisione e a internet.

martedì 28 agosto 2018

Uccidi il padre

Autore: Sandrone Dazieri
Editore: Arnoldo Mondadori Editore
Mese di uscita: Marzo 2017
Collana: Oscar Bestsellers
N° Pagine: 562
Prezzo: € 13,00

Pubblicata da Mondadori e uscita nelle librerie italiane nel maggio del 2014 e riproposta nel 2017 nella collana Oscar Bestsellers, Uccidi il padre è un'opera dello scrittore e sceneggiatore cremonese Sandrone Dazieri.
Abbandonato il suo personaggio più famoso, il Gorilla, protagonista di una serie di romanzi noir metropolitani molto amati da un vasto numero di lettori e di un film interpretato da Claudio Bisio, l'autore dà vita ad un thriller frenetico e claustrofobico.
Scritto con uno stile scorrevole e asciutto e dotato di dialoghi scarni e incisivi questo libro, che nonostante le 562 pagine di cui è composto costituisce una lettura veloce, appassionante e ricca di tensione e colpi di scena, si può considerare la risposta italiana a The Manchurian Candidate di Richard Condon.
Cardini della vicenda, il cui svolgimento ricorda a grandi linee quello de Il silenzio degli innocenti, sono tre persone molto diverse tra loro: Colomba Caselli, una poliziotta in congedo dopo un evento tragico a cui ha assistito impotente, Dante Torre, un esperto di individui scomparsi e abusi infantili, le cui incredibili capacità deduttive sono eguagliate solo dalle sue fobie e paranoie, soprannominato “l'uomo del silos” perché da bambino è stato cresciuto ed educato all'interno di un silos e un individuo, “Il Padre”, l'unico contatto che, durante la prigionia, Dante aveva con il mondo esterno.
Affiancati da comprimari molto ben connotati, sia fisicamente che psicologicamente, questi soggetti sono gli interpreti di una storia che, nonostante sia un'opera di fantasia che parte come una normale caccia ad un serial killer, prendendo spunto da reali attività svolte dalla CIA, durante gli anni cinquanta e sessanta del XX secolo, che avevano come scopo quello di influenzare e controllare il comportamento delle persone, assume peculiarità diverse da quelle che il lettore si aspetta, spiazzandolo e rendendolo partecipe di eventi che coinvolgono alte entità come stato ed esercito.
A dimostrazione della plausibilità della trama poi, anche le ambientazioni sono precise e ben documentate.
I fatti si svolgono a Roma e Cremona, due città che Dazieri conosce molto bene, in cui alla descrizione di zone di fantasia, funzionali allo svolgimento degli episodi narrati, sono alternate quelle di luoghi geografici ben precisi.
A questi tratti si aggiunge una scansione dei capitoli molto equilibrata e un ritmo serrato in cui a momenti frenetici si alternano attimi di tranquillità.
Il finale, in cui si arriverà a tirare tutte le fila degli intrecci, è molto ben costruito ma nonostante ciò all'improvviso vengono a galla sottotrame che daranno adito ad altri dubbi che non saranno risolti.
Alla luce di quanto scritto si può quindi affermare, senza paura di smentite, che questo volume sia una lettura consigliatissima oltre che per gli appassionati di letteratura gialla anche per chi cerca in un romanzo spunti di riflessione e trame appassionanti.

sabato 4 agosto 2018

I due superpiedi quasi piatti

Regia: E.B. Clucher
Soggetto e sceneggiatura: E.B. Clucher
Fotografia: Claudio Cirillo
Scenografia: Enzo Bulgarelli
Musica: Guido e Maurizio De Angelis
Anno d’uscita: 1977
Durata: 112'
Prodotto da: Josi W. Konski per la Tritone Cinematografica
Cast: Terence Hill, Bud Spencer, Laura Gemser, David Huddleston, Luciano Catenacci

Terzo lungometraggio della coppia più effervescente, scatenata e amata della commedia italiana: quella cioè formata da Bud Spencer, l’asso del nuoto italiano Carlo Pedersoli, e Terence Hill, Mario Girotti, "I due superpiedi quasi piatti" è un film diretto da E.B. Clucher, pseudonimo dell’italianissimo Enzo Barboni, che di questa pellicola ha scritto anche il soggetto e la sceneggiatura, in cui si ritrovano, assieme agli immutati personaggi di Spencer e Hill, l’altrettanto invariata formula spettacolare che ha decretato il successo del duo.
Per quanto ripetitivo, nonostante la novità dell’ambientazione americana, il film è infatti molto divertente, pervaso di svagato umorismo, di imprese fracassone, di non sense e di buoni sentimenti.
La violenza è, come sempre, più appariscente e vistosa che effettiva e la volgarità del linguaggio quasi del tutto assente.
Questa brevemente la trama: dopo vani tentativi di trovar lavoro come scaricatori al molo 16 di Miami, dominio di Fred Line e della sua banda, il furbo Matt Kirby e il massiccio Wilbur Walsh, bravissimo nel menar le mani, decidono di rapinare un supermercato.
Sbagliano obiettivo però e, invece che nei locali della cassa, penetrano in quelli che la polizia riserva all’arruolamento delle reclute, per cui, dovendo cavarsi d’impaccio, non resta loro che fingersi aspiranti poliziotti.
Divenuti tali loro malgrado, indagano sulla scomparsa di un giovane cinese della cui poverissima famiglia diventano amici e protettori.
Scoprono così che il ragazzo, per essersi involontariamente intromesso in loschi affari, è stato fatto uccidere da Fred Line, la cui vera attività è il traffico della droga.
Arrestata l’intera gang del boss, Matt e Wilbur potrebbero finalmente lasciare la polizia: senonché s’accorgono di non volerlo più.
Questo lungometraggio, il primo della coppia ambientato in America e precisamente in Florida, è riuscitissimo sotto ogni aspetto.
Lo spettatore infatti si trova di fronte a personaggi ben caratterizati e ovviamente alla dirompente simpatia dei due portagonisti.
La trama è efficace e funzionale alla fisicità espressa da Bud Spencer e Terence Hill e la colonna sonora, opera dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, è molto orecchiabile.
La comicità poi è semplice e immediata e le gag e le battute, sempre di grande qualità, sono presenti in gran numero.
Infine due curiosità: la ragazza cinese che viene aiutata dai due poliziotti è Laura Gemser, attrice di origine indonesiana famosa per aver interpretato il ruolo di Emanuelle e numerosi film di Joe D’Amato.
Il capo della polizia invece, è interpretato dall’attore David Huddleston, lo stesso che nel film dei fratelli Coen "Il grande Lebowski" interpreta il personaggio del miliardario eccentrico, che poi si scopre non essere nemmeno milionario ma solo un mitomane, costretto alla sedia a rotelle e preoccupato per la bella moglie teenager.
Alla luce di quanto detto possiamo affermare che "I due superpiedi quasi piatti" è una visione obbligata per gli amanti della coppia formata da Bud Spencer e Terence Hill e in generale del cinema comico italiano.

mercoledì 11 luglio 2018

Il lungo inganno

Di: Leonardo Gori, Divier Nelli
Editore: TEA
Collana: TEA mistery
Data di uscita: Giugno 2018
N° Pagine: 217
Prezzo: € 12,00

Uscito negli ultimi giorni di maggio del 2009 in tutte le librerie italiane edito da Hobby & Work e ristampato nel giugno 2018 da TEA, dopo che numerosi capitoli sono stati riscritti, Il lungo inganno è un pregevole thriller storico scritto a quattro mani da Divier Nelli e Leonardo Gori.
Partendo da tre vicende, a prima vista apparentemente scollegate e molto lontane tra di loro sia nello spazio che nel tempo, l’opera è unita da un’unica e misteriosa storia, quella di un lunghissimo inganno, destinata a svelarsi con un clamoroso colpo di scena nelle ultime pagine del libro, gettando una luce inquietante, e terribilmente verosimile, su alcune delle pagine più vergognose e vergognosamente dimenticate della storia italiana del ventesimo secolo.
Romanzo nero, duro, spietato, incalzante e imprevedibile, che ha il sapore amaro delle verità scomode, spicca oltre che per la trama anche per la narrazione che, a seconda delle vicende descritte, si avvale di un linguaggio più o meno costruito e colto.
Si passa infatti dalla lingua colloquiale e semplice che caratterizza la descrizione di ambientazioni e personaggi dei giorni nostri e degli anni ‘70 del ventesimo secolo, a quella più ricercata che mostra una Firenze nel periodo immediatamente precedente all’avvento del fascismo, città in cui si muove il protagonista del libro.
Valentino Poggiolini\Franco Battaglia, personaggio intorno a cui ruota tutta la vicenda descritta nel volume, è connotato in modo molto verosimile e anche le figure del maresciallo dei carabinieri e del ragazzo che lo interroga sono credibili e spingono il lettore all’identificazione.
La ricostruzione meticolosa che gli autori fanno delle città in cui il romanzo è ambientato: la Firenze prefascista e la Viareggio degli anni ‘70 del ‘900 e dei giorni nostri è filologicamente perfetta e di grandissimo interesse.
Molto positivo, in questo periodo di revisionismo storico, è anche il messaggio che gli autori vogliono dare con quest’opera: chi non conosce il proprio passato è destinato a ripeterne gli errori.
Una curiosità da sottolineare, che abbellisce il volumetto e lo inserisce nell'universo narrativo dello scrittore fiorentino, è che in questo romanzo in un gioco di rimandi ormai proprio dello stile di Leonardo Gori fa una piccola comparsata il personaggio del carabiniere Bruno Arcieri, protagonista di numerosi lavori del giallista toscano.
Alla luce di quanto scritto quindi non si può che consigliare la lettura di quest’opera, che terrà il lettore avvinto fino all’ultima pagina, non solo agli amanti della buona letteratura noir ma anche agli appassionati di storia contemporanea e a chi in un romanzo cerca spunti di riflessione.


martedì 8 maggio 2018

La mafia è un montagna di merda


Peppino Impastato
Questo è il modo in cui Peppino Impastato, di cui ricorrono i quarant'anni dalla morte, definiva la Mafia.
Giuseppe Impastato, maglio noto come Peppino, era infatti nato a Cinisi da una famiglia mafiosa, il padre stesso apparteneva al Clan Manzella, militante di sinistra giovanissimo, ben presto rompe con la famiglia per le sue idee, e abbandona la casa.
Nel 68 partecipa, con ruolo di dirigente, alle attività dei gruppi della Nuova Sinistra e conduce le lotte dei contadini espropriati per la costruzione della terza pista dell'aeroporto di Punta Raisi in territorio di Cinisi, degli edili e dei disoccupati.
Da prima fonda Radio Aut, con cui inizia assieme ad un collettivo di giovani del paese la propria lotta politica contro il potere mafioso, la corruzione, i delitti e i traffici di droga che avvengono nel territorio controllato da Tano Badalamenti, capo indiscusso della mafia locale.
Peppino davanti a Radio Aut

Nel ‘78 poi aderisce a Democrazia Proletaria candidandosi alle elezioni comunali, e proprio durante le elezione del maggio 1978, Peppino viene ucciso cercando di mascherare il suo omicidio come atto terroristico.
Il corpo di Peppino fu fatto esplodere con del tritolo sui binari della ferrovia, la stampa , la polizia e la magistratura, immediatamente parlarono di atto terroristico, e la sua morte passò quasi inosservata poiché proprio in quelle ore veniva “restituito” il corpo del presidente della DC Aldo Moro in via Caetani a Roma.
Peppino a quelle elezioni fu eletto simbolicamente.
Negli anni seguenti Peppino è diventato il simbolo di chi, quotidianamente, lotta contro la mafia in Sicilia e non solo, e grazie al fratello Giovanni e alla Madre Felicia che con coraggio hanno testimoniato nelle aule di tribunale contro Zio Tano Seduto come Peppino amava definire il potente mafioso Badalamenti, si giunge alla sua condanna.
La figura di Peppino è ricordata nel bel lungometraggio “I cento passi”, la distanza che separava casa Impastato da quella del boss Tano Badalamenti, di Marco Tullio Giordana, e in numerose canzoni, ma ancora più importante è il Centro a lui dedicato in terrà di Sicilia, centro che svolge attività di controinformazione e lotta per la legalità e la democrazia.

Canzone dedicata a Peppino Impastato da Cisco dei Modena City Ramblers:


sabato 5 maggio 2018

Canzoni [2]

Parlerò in questo post, di uno dei brani più famosi del gruppo che è stato uno dei mie primi amori musicali le cui canzoni ho ascoltato per la prima volta, ormai più di trent'anni fa, su una musicassetta regalatami da mio zio.

Blackbird

"Blackbird" è un brano dei Beatles, contenuto nell'album The Beatles, meglio noto come White Album o Album Bianco, del 1968.

The BEATLES copertina
La canzone è una di quelle più famose di Paul Mc Cartney presenti nel disco, entrata stabilmente nel suo repertorio post Beatles.
All'epoca alcuni la interpretarono in chiave politica, leggendovi richiami al Black Power americano.
Lo stesso autore, in un'intervista del 2001, riferì di aver preso spunto per il testo della canzone da alcuni fatti di cronaca che vedevano protagonista il movimento per i diritti civili dei neri statunitensi nella prima metà del 1968.
"Blackbird", inoltre, apre una trilogia di canzoni consecutive del White Album aventi nel titolo un nome d'animale: Blackbird, merlo, Piggies, porcellini, Rocky Raccoon in cui "raccoon" è il procione.
Il brano è scritto utilizzando la tecnica del Finger-picking, tecnica di arpeggio resa celebre da chitarristi folk.
Nel ritiro del Maharishi a Rishikesh, nella primavera del 1968 infatti, non disponendo di strumenti elettrici, i Beatles potevano usare solo le loro chitarre acustiche, quindi potevano soltanto accompagnarsi col plettro o arpeggiando con le dita per arricchire la melodia.
Registrato nello Studio 2 degli Abbey Road Studios, il brano fu poi mixato, includendovi il gorgheggio di un merlo tratto dalla nastroteca di effetti sonori degli studi, in sei ore.
Ispirato dall'esperienza vissuta da Mc Cartney quando fu svegliato da un merlo che iniziò a cantare prima dell'aurora, il testo dell'autore trasforma il brano in una metafora di risveglio interiore a un livello più profondo.

Per chi volesse ascoltare il brano:


domenica 29 aprile 2018

Canzoni [1]


Visto che l'ascolto di musica è una parte costante e sostanziale della mia vita, in questo nuova rubrica voglio affrontare brevemente l'analisi di alcune canzoni.
Non quelle che critica e studiosi ritengono le migliori, ma quelle che mi hanno fatto provare sensazioni forti come pianto e riso, riflettere sulla condizione umana, su alcuni episodi della storia sia recente che passata o semplicemente passare in modo piacevole alcuni momenti.
Visto che il primo amore non si scorda mai, comincerò parlando di uno dei classici del repertorio del gruppo con cui a metà degli anni '80 ho cominciato ad ascoltare musica rock.

Sweet Jane

"Sweet Jane" è una canzone dei Velvet Underground, apparsa per la prima volta nel loro album Loaded del 1970.

Loaded copertina
È stata scritta dal frontman della band, Lou Reed, il quale continuò ad inserire il brano nelle sue performance dal vivo anche in seguito quando divenne solista.
Questo pezzo è infatti uno dei favoriti dei fan del cantante e frequentemente viene suonato dalle radio come un classico del rock.
Quando Loaded venne distribuito nel 1970, la Warner Brothers rimosse un intero verso probabilmente per accorciare la canzone perché fosse maggiormente fruibile per la messa in onda sulle radio, cosa che contrariò fortemente Reed.
Oltre che in Loaded "Sweet Jane" è stata inserita anche negli album Live at Max's Kansas City, The Velvet Underground Live, Peel Slowly and See, Rock 'n' Roll Animal, Animal Serenade, Street Hassle, Live In Italy e NYC Man.
Di questo brano sono state realizzate numerose cover tra cui si ricordano, nel 1972, quella della la band glam rock Mott the Hoople, prodotta da Bowie, inserita come canzone d'apertura dell'album All the Young Dudes e venduta come singolo in Canada, Olanda, Portogallo, Spagna e Stati Uniti, sebbene non nel Regno Unito, la loro patria, e, nel 1988, quella del gruppo canadese dei Cowboy Junkies basata su una versione più lenta della canzone.
Nel marzo 2005, Sweet Jane è stata inserita dalla rivista Q al 18esimo posto nella lista dei migliori pezzi musicali per chitarra.
Il 18 gennaio 2007, è stato messo in onda un episodio del telefilm CSI: Crime Scene Investigation intitolato "Sweet Jane", nel quale si utilizza la canzone nella versione dei Velvet Underground all’inizio dell'episodio e la cover dei Cowboy Junkies alla fine.

Per chi volesse ascoltare il brano:



Cover dei Cowboy Junkies:


Cover dei Mott the Hoople:


sabato 28 aprile 2018

Pagine ingiallite [2] Giuseppe Ciabattini e i romanzi di “Tre Soldi”


Giuseppe Ciabattini
Parlando di romanzo giallo, con un particolare occhio di riguardo per la Toscana, non si può non ricordare la figura di Giuseppe Ciabattini.
Famoso scrittore, regista, commediografo e attore, nato ad Aulla, piccolo paese in provincia di Massa Carrara, nel 1882 e morto a Milano nel 1962 è noto, oltre che per aver recitato in numerosi film di gran richiamo, anche per aver lavorato per la radio.
Per questo media ha infatti creato numerosi e famosi personaggi, alcuni dei quali protagonisti di gialli radiofonici, tra cui, con lo pseudonimo di Giuseppe Catiani, l’ispettore Scala, presente nei radio sceneggiati “L’ispettore Scala” e “L’Ispettore Scala è in piedi”.
Nel 1956, inoltre, ha dato vita a due romanzi polizieschi molto originali.
Questi libri, pubblicati sulla testata “I gialli Mondadori”, sono ispirati a sei racconti, raccolti con il titolo “Sei casi per Tre Soldi”, trasmessi in un primo momento dalla radio e, in seguito, pubblicati dalla Mondadori in appendice ai volumi del giallo.
Per capire la novità di queste opere, bisogna analizzare il periodo storico in cui sono state pubblicate.
La seconda guerra mondiale era finita da poco e l’Italia ne era uscita sconfitta.
In questo contesto quindi, gli autori e gli intellettuali del bel paese guardavano con occhio benevolo all’America, meglio ancora agli Stati Uniti, la cui cultura rappresentava tutto ciò che poteva far dimenticare alla nazione di essere povera in canna.
Erano gli anni in cui Fred Buscaglione irrompeva sulla scena con canzoni, scritte da uno studente di giurisprudenza di nome Leo Chiosso, che parlavano con ironia di “bulli e pupe”, di New York e di Chicago, di duri spietati con i nemici, ma sempre in balia delle donne e dell’alcool e in cui Renato Carosone faceva la parodia di questa situazione e nel brano “Tu vuo’ fa l’americano” dipingeva la versione napoletana del mito degli Usa facendo un ritratto ironico di un giovane che si atteggiava a yankee.
In questo clima anche la letteratura poliziesca americana ebbe un’ampia diffusione.
In Italia cominciarono ad essere letti autori di romanzi, appartenenti al così detto genere hard boiled, che riuscivano a condire le loro storie con un po’ di sesso e di violenza, per suscitare quel gusto del proibito che, visto oggi, assomiglia a una barzelletta.
Ed è proprio in questi anni, per l’esattezza nel 1956, che Giuseppe Ciabattini pubblica i suoi libri.
Questi volumi hanno per protagonisti Tre Soldi e il socio Boero, due clochard, che in una città che anche se non viene mai nominata ricorda molto da vicino Milano, vagano alla ricerca di pezzi di carta da raccogliere e rivendere.
A questo, Tre Soldi, unisce una passione smodata per la lettura di libri gialli e ben presto, grazie anche ad una certa capacità di ragionare sviluppata dalla vita solitaria, acquisisce una notevole tecnica investigativa che mette all'opera, non per denaro o per divertimento, ma solo per umanità.
Gli ambienti che frequenta spesso gli forniscono dei casi e il simpatico vagabondo è subito pronto all'azione spinto da un istintivo senso di giustizia e di onestà e da un forte desiderio di avventura.
Così, prima che la polizia giunga alla conclusione, al Commissario di zona viene recapitata una lettera, piena di errori di ortografia, ma con la soluzione del mistero.
Alla luce di quanto scritto, per la freschezza e la novità che questi romanzi hanno rappresentato per l'epoca, non si può non rammaricarsi per il fatto che la stagione di Tre Soldi sia stata brevissima.



martedì 24 aprile 2018

Piero Calamandrei "lapide a ignominia"

Per ricordare il 25 aprile voglio proporre un testo che mi fa commuovere ogni volta che lo leggo o l'ascolto e mi fa pensare che dovremo riappropriarci di questi valori per essere cittadini e persone migliori.

Piero Calamandrei
Processato nel 1947 per crimini di Guerra, Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti, Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte.
La condanna fu commutata nel carcere a vita.
Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà.
Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore.
Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento.
A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, noto giornalista, giurista e politico italiano, con una famosa epigrafe, recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti, dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista.
L’epigrafe afferma:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non con la terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non con la neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non con la primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi con lo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
 
 

lunedì 23 aprile 2018

Pagine ingiallite [1] Jarro e “I ladri di cadaveri”


Jarro in cucina sulla copertina
dell'Almanacco Gastronomico del 1913
Romanziere, studioso di letteratura e storico, giornalista, critico teatrale attento, umorista, “giallista”, esperto di gastronomia, intimo di Gabriele D’Annunzio, che accompagnò durante la permanenza a Firenze, tra i suo i contemporanei lasciò un segno indelebile.
Tra le sue opere più note si ricordano la pubblicazione, a sua cura, degli scritti di Dante Alighieri, di Andrea Cavalcanti, di Pietro Giordani, di Guido Vernani e di Jacopo Alighieri e la creazione di uno dei primi poliziotti seriali della letteratura italiana, il commissario Lucertolo, che apparve come protagonista in quattro romanzi pubblicati dalla Treves tra il 1883 e il 1884, anticipando Conan Doyle - che solo nel 1887 darà vita al suo Sherlock Holmes - di ben quattro anni.
Conobbe un discreto successo anche come gastronomo a partire dagli anni ottanta del XIX secolo, quando il quotidiano fiorentino “La Nazione” accoglieva nelle sue colonne, settimana dopo settimana, i suoi articoli di cucina.
Pubblicò inoltre volumi leggeri e intriganti sul teatro, a carattere critico, umoristico e aneddotico, parlando di cantanti, attori e attrici, acrobati, concertisti, musicisti, mimi e ballerine; biografie di uomini politici e un volume che, già nel 1910, apriva le porte alla nuova arte del cinema.
Nel 2004, grazie alle ricerche del giornalista veronese esperto di letteratura popolare Claudio Gallo, è uscito, per la casa editrice Aliberti di Reggio Emilia, “I ladri di cadaveri”, romanzo scritto da Jarro nel l883 e ambientato nella Firenze degli anni trenta dell’ottocento.
L'opera, che affina gli elementi del feuilleton ottocentesco ponendo le basi per il giallo italiano contemporaneo, inizia con una descrizione dell'Osteria del Frate, un posto situato in mezzo a terreni incolti in una zona appartata e solitaria della periferia di Firenze, poco fuori Porta della Croce.
Qui bazzicano precettati e sospetti, un'accozzaglia di gente rozza, audace e manesca.
Un luogo ideale per mettere a segno rapine e delitti.
Proprio nella taverna si scatena di notte una furibonda rissa con conseguente accoltellamento e, verso l'alba, viene addirittura ritrovato davanti a quel postribolo un calesse con il cadavere di un uomo decapitato alla guida.
Poche ore dopo una donna spaventata e in stato confusionale si presenta al commissariato di Valfonda.
Sotto il braccio la poveretta tiene un altro macabro reperto: una mano di donna.
E, prima ancora che la polizia possa mettersi in moto, una testa mozzata viene rinvenuta in un'altra zona della città e nella Torre degli Amieri viene ritrovata un'orrenda pozza di sangue che preannuncia altre terribili morti.
Poco alla volta si diffonde la notizia che un terribile assassino si aggira per i sobborghi della città.
Un uomo che si diverte a disseminare Firenze con pezzi disarticolati delle sue vittime.
Chiamato a svolge re le indagini è Domenico Arganti, detto Lucertolo , commissario di Santa Maria Novella, animato da una foga inestinguibile e da una smania frenetica.
Nato quattro anni prima di Sherlock Holmes, come l'illustre collega utilizza - nell'analizzare indizi e scene del crimine - il metodo deduttivo; è abile nei travestimenti e si serve del popolo basso per cercare informazioni.
La sua bravura nell'interpretazione degli indizi e la formulazione di ipotesi sovente esatte portano poi ad una naturale antipatia nei suoi confronti.
Nonostante tutto però la capacità di sporcarsi le mani, di mischiarsi con la gente del popolo e l'amore per la famiglia lo rendono un personaggio non del tutto odioso agli occhi dei lettori.
Il libro, scritto in un italiano semplice con l'uso di alcuni termini toscani ottocenteschi, è ambientato nella Firenze dei reietti, dei conciatori, dei locandieri.
Le vicende torbide, la morbosità di alcuni personaggi, l'ambientazione notturna, le segrete e i messaggi clandestini rimandano ad alcuni aspetti di capolavori della letteratura gotica.
Jarro - sebbene con ogni probabilità conoscesse Poe, inventore dei capisaldi della letteratura poliziesca moderna - ha studiato verbali ed atti processuali fiorentini al fine di dare connotati credibili a indagini e inchieste, fulcro delle vicende.
Nonostante manchi la leggerezza di certi episodi, anche i più raccapriccianti, del romanzo d'appendice, questo libro non è una lettura impegnativa.
Da segnalare infine l'introduzione critica di Luca Crovi e la postfazione di Claudio Gallo che danno al lettore indicazioni precise sul periodo storico in cui è ambientato il romanzo e alcune informazioni biografiche sull'autore.
Lettura obbligatoria per gli amanti del giallo, quest'opera è anche consigliata a chi cerca un'abile ricostruzione di un delitto in un'ambientazione non consueta come quella della Firenze del 1836.


domenica 22 aprile 2018

Pagine ingiallite [0] Introduzione


Benché esistano in letteratura numerosi romanzi e racconti precedenti che presentano elementi assimilabili al giallo, la data di nascita del genere viene fatta coincidere con la pubblicazione nel 1841, de “I delitti della rue Morgue” di Edgar Allan Poe, lavoro in cui compare il personaggio di Auguste Dupin, un investigatore che riesce a risolvere i casi criminali senza recarsi sul luogo del delitto ma solo sulla base di resoconti giornalistici e grazie alle sue enormi capacità deduttive.
Per quanto riguarda l'Italia invece, secondo gli studiosi, il primo poliziesco pubblicato risale al 1852.
In quell'anno vede la luce “Il mio cadavere”, del giornalista e drammaturgo partenopeo Francesco Mastriani, presentato in un primo momento a puntate su periodici del tempo ed in seguito in volume dall'editore Rossi di Genova.
Anche “Il cappello del prete”, scritto nel 1887 da Emilio De Marchi, accattivante, ricco di risvolti psicologici e ambientato a Napoli e il ciclo delle opere del fiorentino Giulio Piccini, in arte Jarro, che ha per protagonista il commissario di Santa Maria Novella Domenico Arganti, detto Lucertolo, hanno preceduto la fortunata stagione del giallo inglese di Arthur Conan Doyle e Agatha Christie.
Parlando del XX secolo non si può non menzionare il commissario De Vincenzi, una sorta di Maigret italiano, creato in pieno periodo fascista da Augusto De Angelis.
Altri autori da ricordare sono Giorgio Scerbanenco, creatore di gioielli del noir che, riletti oggi, appaiono anche come uno spaccato umanissimo e amaro dei nostri anni sessanta, la coppia formata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini, che con “La donna della domenica” ci hanno fornito uno spaccato della borghesia torinese degli anni '70, quelli che, più o meno alla metà degli anni ‘80, si sono riuniti in gruppi e scuole, come ad esempio il Gruppo 13 bolognese o la Scuola dei Duri milanesi, fino ad arrivare ai nostri giorni in cui operano, tra i numerosissimi altri, scrittori come: Massimo Carlotto, Giampaolo Simi e Andrea Camilleri.
Questi intellettuali, e molti altri, saranno oggetto degli articoli di “Pagine ingiallite” rubrica attraverso la quale mi divertirò ad analizzare periodi storici particolari della letteratura gialla e libri poco conosciuti o dimenticati.
Sperando che chi mi voglia seguire si diverta a leggere questi interventi tanto quanto io mi sono divertito a scriverli, auguro a tutti buona lettura.

lunedì 16 aprile 2018

Destino

"Destino" è un cortometraggio a cartoni animati, della durata di 6:32 minuti, cominciato da Walt Disney e Salvador Dalì, completato ed infine prodotto nel 2003 dalla Walt Disney Company.
L'idea originale dell'opera risale al 1945 quando l'animatore statunitense Walt Disney e il pittore surrealista spagnolo Salvador Dalí, decisero di collaborare ad un film d'animazione con le musiche eseguite dal compositore messicano Armando Dominguez.
I disegni e i bozzetti preparativi vennero realizzati dall'artista degli studios della Disney John Hench e dallo stesso Dalí in otto mesi, tra il 1945 e il 1946.
Bozzetti per la lavorazione di "Destino"

Tuttavia, a causa di problemi di natura finanziaria, la Walt Disney, infatti, fu colpita da una crisi economica durante la Seconda guerra mondiale, questo lavoro fu accantonato.
John Hench produsse un piccolo test d'animazione della durata di circa 18 secondi, nella speranza di un futuro recupero del progetto.
Nel 1999, il nipote di Walt Disney, Roy, mentre stava lavorando per la realizzazione di "Fantasia 2000", rispolverò l'idea e decise di ripristinarla.
Per il completamento del cortometraggio vennero incaricati gli studios Disney di Parigi.
La pellicola fu prodotta da Baker Bloodworth e diretta dall'animatore francese Dominique Monfrey, qui per la prima volta nel ruolo di regista.
Un team di circa 25 animatori si diede da fare per decifrare gli storyboard criptici di Dalí ed Hench, avvalendosi anche dei diari scritti dalla moglie di quest'ultimo Gala.
Alla fine il risultato fu un cortometraggio in cui sono mescolati elementi di animazione classica a ritocchi apportati con la computer grafica.


In occasione della mostra di Dalì ospitata a Milano a Palazzo Reale esce su Topolino numero 2861 del 28 settembre 2010 la storia, scritta da Roberto Gagnor e disegnata da Giorgio Cavazzano, "Topolino e il surreale viaggio nel destino".

Pagina iniziale della storia "Topolino e il surreale viaggio nel destino"

lunedì 9 aprile 2018

I migliori racconti di fantascienza [1]

Sentinella



Sentinella (Sentry) è un racconto, scritto nel 1954 dallo scrittore statunitense Fredric Brown, considerato un classico della fantascienza.
Elaborato molto breve e basato su un'idea molto semplice è apparso in numerose antologie, è stato pubblicato la prima volta in Italia nel 1955 con il titolo "Avamposto sul pianeta X".

Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa.
Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento un’agonia di fatica.
Ma dopo decine di migliaia d’anni, quest’angolo di guerra non era cambiato.
Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arriva al dunque, tocca ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere la posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo.
Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano mandato.
E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico.
Il nemico, l’unica altra razza intelligente della galassia… crudeli schifosi, ripugnanti mostri.
Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata subito guerra; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica.
E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie.
Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame, freddo e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi.
Ma i nemici tentavano di infiltrarsi e ogni avamposto era vitale.
Stava all’erta, il fucile pronto.
Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle.
E allora vide uno di loro strisciare verso di lui.
Prese la mira e fece fuoco.
Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più.
Il verso, la vista del cadavere lo fecero rabbrividire.
Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no.
Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante e senza squame…